Cagliostro e l'inquisizione

Grande scalpore suscitò in tutta Europa l'improvvisa notizia, divulgata abilmente da molti giornali e riviste, dell'inatteso arresto del conte di Cagliostro. Il fatto ebbe luogo a Roma, il 27 dicembre 1789, per ordine di papa Pio VI che, preoccupato dai racconti sugli eccezionali poteri e sulle gesta del nostro avventuriero, decise di rimettere nelle mani dell'inquisizione romana la sorte del più pericoloso interprete dell'inquitudine, dello spirito avventuroso e fantastico che caratterizzò il "Secolo dei Lumi". Il "Grande Cofto" si trovò così a dover fronteggiare i metodi spietati e cruenti del più temmuto tribunale dell'epoca, il Sant'Uffizio. Era stato istituito nel 1542 da papa Paolo III su consiglio del cardinale Gian Pietro Carafa (futuro papa Paolo IV), reduce dalla Spagna dove aveva assistito personalmente alla repressione di ogni tendenza eretica ad opera del feroce organismo inquisitorio perfezionato da Tomas de Torquemada, il primo e più famoso "grande inquisitore", che aveva mandato a morte migliaia di presunti eretici. Il Sant'Uffizio dell'inquisizione generale romana, seguendo il modello spagnolo, unificò l'attività inquisitoriale che fino ad allora era stata esercitata dai vescovi, nelle diocesi di loro competenza. Composta da sei cardinali, quest'istituzione risultava decisamente nuova perché meno soggetta al controllo episcopale, ma anche perché procedeva affrontando il problema dell'eresia da un punto di vista dottrinale piuttosto che come pubblica miscredenza, dedicando speciale attenzione agli scritti di teologi o di alti ecclesiastici. Il suo raggio d'azione si andò via via estendendo, grazie ad una minuziosa investigazione dei sospetti, fino a divenire un vero e proprio strumento del governo papale, inizialmente impiegato per conservare l'ordine interno alla Chiesa ma, successivamente, adoperato per salvaguardare la stabilità di un potere tutto temporale. Fu, dunque, con l'organismo che nel 1633 aveva condannato Galileo che Cagliostro dovette fare i conti, porgendo tuttavia il fianco molto più apertamente del suo predecessore: la manifesta adesione alla massoneria, la divulgazione di culti esoterici, i molteplici esperimenti alchemici di cui era stato protagonista e, non da ultimo, la profetica predizione della caduta del trono capetingio costituivano di per sé, per lo zelante quanto ipocrita e spietato tribunale, prova sufficiente per emettere un verdetto di morte!
L'occasione per l'arresto si presentò in seguito alle accuse mosse da Lorenza Feliciani che, avendo trovato un sicuro rifugio a Roma, presso la famiglia, decise di fare importanti rivelazioni sulle attività praticate dal marito e sulle costrizioni che era stata costretta a subire: le veniva impedito con la forza di frequentare la Chiesa e di fare visita ai parenti. Già a Londra Lorenza aveva provato a denunciare il marito, ma Cagliostro era riuscito a salvarsi inducendola a ritrattare; questa volta, invece, con l'aiuto dei congiunti che sottoscrissero numerose delazioni, ella aveva conseguito l'obiettivo più importante: Pio VI in persona, dopo un consulto con alcuni cardinali ed il Segretario si Stato Zelada, deliberò l'arresto di Cagliostro che fu immediatamente condotto nelle carceri di Castel Sant'Angelo, mentre Lorenza fu rinchiusa nel monastero di Sant'Apollinare in Trastevere, a disposizione del Sant'Uffizio. Con un preciso decreto il pontefice, infatti, aveva affidato al Supremo Tribunale il compito di prendere in esame i documenti e gli oggetti che erano stati sequestrati al momento dell'arresto. Ampie facoltà, poi, vennero concesse agli inquisitori che non dovevano riferire necessariamente alla Congregazione, ma potevano agire con la massima celerità nell'indagine e nella requisitoria, pur di portare a compimento il delicato processo. Le accuse rivolte a Cagliostro consistevano principalmente nell'istigazione e nella propagazione della Loggia dei Liberi Muratori e nell'esercizio di pericolosi e fuorvianti principi ereticali: anche rinchiuso nelle segrete di Castel Sant'Angelo, la più sicura fortezza papale, egli appariva pericoloso per la stabilità del soglio pontificio minato, secondo Pio VI, dall'empietà e dalla nefandezza insite negli insegnamenti e nei misteri predicati, volti a svilire le verità della fede. Massimamente esecrabile, inoltre, era considerata l'arte divinatoria che in più di un'occasione Cagliostro aveva dimostrato di praticare, avvalendosi di strumenti il cui impiego risultava contrario alla dottrina cristiana. Egli, dunque, viene dipinto dal Sant'Uffizio come il capo di un credo esoterico che, preannunciando a Villa Malta il movimento rivoluzionario che aveva cancellato una delle monarchie più solide d'Europa, quella francese, aveva dato prova tangibile del male di cui poteva essere origine. L'Inquisizione di Pio VI, nella sua lotta spietata alla Massoneria, non vide o non volle vedere che nella realtà dei fatti mancavano le prove necessarie per incriminare di tutto ciò che l'eclettico avventuriero, colpevole soltanto di aver tratto vantaggio dalle suggestioni tanto abilmente create per la gioia di amici e conoscenti. Cagliostro finiva così per impersonare il male presente nel suo tempo, pur non avendo sostanziali connessioni con i più fondati sistemi di pensiero dell'epoca, tanto avversari della Chiesa (le elaborazioni culturali di Diderot, D'Alembert, Voltaire, Roussou, ecc. erano considerate responsabili di aver spinto la Francia alla rivoluzione); diventa protagonista di macchinazioni politiche ordite con il supporto di una massoneria privata ridotta ad una setta dedita al sovvertimento delle regole divine, naturali e sociali. Per questo motivo, grande importanza fu data al "Rituel del la Maconnerie Egyptienne", il manoscritto che conteneva le teorie e le tesi massoniche divulgate da Cagliostro.
Il Sant'Uffizio decise di affidarne la disamina a due esperti della materia, il domenicano Tommaso Vincenzo Pani, commissario generale dell'Inquisizione, e Padre Francesco Contarini, consultore del Sant'Uffizio. L'opera venne bollata come empia e accusata di contenere l'impostazione dottrinale di principi ereticali e massonici, pericolosi per l'integrità del credo cattolico. Il pontefice poté così ordinare la distruzione del manoscritto e di tutti gli strumenti massonici sequestrati a Villa Malta. L'esecuzione della sentenza avvenne nella pubblica cerimonia detta "sermo generalis" o "autodafé": dinanzi ad una folla acclamante furono bruciati i libri e gli oggetti del rito egiziano. Di lì a pochi giorni, Cagliostro fu tradotto nelle caliginosi carceri della fortezza di San Leo, dove scontò la condanna alla reclusione perpetua; punizione forse ben più grave, per uno spirito libero, della pena di morte che Pio VI sospese poco prima dell'effettiva attuazione.